Mati Logoreci, il pittore che affronta la vita in salita cercando la libertà

Di Nerolla

Ha una rara sensibilità mista a fragilità e sorriso. È il pittore Mati Logoreci, albanese (nato a Shkodër, vicino al confine col Montenegro), con cittadinanza italiana, classe 1964, che ha eletto Rocca di Papa a sua nuova casa. Se avete sentito parlare dell’intellettuale Mati Logoreci (Shkodër, 10 febbraio 1867 – Tiranë, 7 febbraio 1941) e vi chiedete se sono parenti, la risposta è affermativa. “Era il fratello di mio nonno, lo zio di mio padre. Appartengo ad una delle famiglie conosciute del mondo intellettuale. Lui insegnava albanese ed ha cercato di regolamentare la lingua nazionale, ponendo le basi di un nuovo dizionario (in particolare, ha provato a ripulire la lingua dalle parole straniere), dopo quattrocento anni di dominio turco. Può essere considerato uno dei pionieri della lingua di oggi e questo è stato il suo più grande merito”. L’artista Mati Logoreci ogni domenica espone i suoi quadri a Ponte Milvio Antiquariato: le sue tele sono una festa di colori, ritratti e paesaggi. Martedì 12 aprile (alle ore 18) inaugura la personale “Riflessi” a Trastevere (in via del Moro 49) in Roma, che fino a Pasqua (domenica 17) presenta una sintesi di un anno di lavoro che comprende, tra l’altro, un suo peculiare autoritratto e la modernizzazione di tre opere di Caravaggio.

Mati Logoreci, cosa le ha raccontato suo padre dello zio a cui deve il nome?

“Ho il rimpianto di non aver chiesto ai miei genitori – papà è morto nel 2014, mamma nel 2017 – abbastanza informazioni sulla mia famiglia, preso sempre come sono dal mio continuo ‘fare’. Durante il Regime comunista lo zio è stato un po’ messo da parte, non è stato valorizzato. Il mio cognome era scomodo, la mia famiglia è stata perseguitata politicamente. Papà, che era del ’26, il più piccolo di una famiglia numerosa, aveva il fratello maggiore che aveva quasi vent’anni più di lui e viveva a Londra. Era uno scrittore e faceva il programma Radio Londra in albanese, motivo per cui mio padre mi diceva che dovevano nascondersi coi tedeschi nel 1943 e poi anche dopo, durante il Regime comunista, la situazione per loro non è migliorata; quindi, il nome Logoreci è stato abbastanza malvisto e ne ha fatto le spese anche mio zio. Quando è crollato il Regime (la caduta del comunismo in Albania è cominciata nel dicembre del 1990 con manifestazioni studentesche e si è conclusa nella prima metà del decennio, ndr), c’è stata una sorta di rivalutazione a livello statale di mio zio a cui oggi sono dedicate scuole e strade. Durante il periodo comunista, invece, il suo valore era riconosciuto solo tra gli intellettuali”.

Quando è venuto in Italia?

“A metà luglio del 1990, l’anno prima del flusso dei barconi. A giugno di quell’anno entrai di nascosto nell’ambasciata italiana. Ci fu un accordo tra i governi e l’Onu ed io, insieme a tanti, fui portato in Italia tra il 22 e 23 luglio. Sono stato circa un mese a Brindisi e poi sono venuto a Roma grazie ad una persona di Formello che ospitò me e altri due ragazzi. Qui cominciai a lavorare in una tipografia e, di sera, seguivo un corso allo Ied (Istituto europeo di Design), che m’impegnò tra il ’90 e il ’92. In classe conobbi Claudio, che mi portò a trasferirmi a lavorare nella tipografia che gestiva col padre in Piazza Venezia, dove ho lavorato fino a cinque anni fa. Siamo rimasti in buoni rapporti, ancora adesso ci sentiamo. Lavorare al centro mi ha dato modo di innamorarmi della monumentalità di Roma, che oggi traduco a modo mio nei quadri, con la sua luce calda dei tramonti e il suo legame visibile col passato. Quando ho perso il lavoro mi sono, infatti, rimesso di nuovo a dipingere, cosa che avevo smesso di fare quasi del tutto”.

Aveva smesso per mancanza di tempo?

“In realtà, quando sono venuto in Italia nel Novanta, speravo con la pittura di tirare fuori qualcosa di buono; invece, è stato tutto complicato e difficile. Mi sono scontrato con un ambiente artistico un po’ ostile. Nel frattempo, ho scoperto di avere anche un altro talento, quello per l’arrampicata. Il talento per la pittura l’ho sempre avuto, mentre nel 1995 ho scoperto lo sport che ho praticato e pratico a livello amatoriale, soprattutto nell’attrezzare itinerari nuovi. Tra Lazio, Abruzzo e Molise avrò aperto quasi 150 itinerari. A Roma nell’ambiente dell’arrampicata mi conoscono bene. Nell’arrampicata ho trovato un talento che non sapevo fino a quando ho compiuto 32 anni e mi sono dato ad essa anima e corpo, così la pittura è rimasta un poco un’incompiuta, quasi un dolore. Ma la vita riesce a sorprenderti anche in ciò che apparentemente è una disgrazia. Ho perso il lavoro e poteva sembrare una tragedia, invece mi sono rimesso sotto a lavorare, ho ripreso il filo della pittura con più coscienza e smaliziato dal gusto occidentale. Quando sono arrivato qui, venivo dall’Albania, ma era come se arrivassi da un altro pianeta! Ora è tutto diverso, ho compreso come funziona l’arte qui ed ho ripreso a fare le mostre”.

In cinque anni ha già fatto tanti quadri?

“In tutto ciò che faccio sono prolifico, così anche ora nella pittura. Ho basato sempre la mia vita sulla creazione e penso che l’unica salvezza di questo mondo sia lavorare e tirare fuori delle cose con la fatica. Mi sono messo sotto ed ho dipinto tantissimo in questi ultimi anni”.

Qual è la sua tecnica pittorica?

“A olio, mi muovo tra impressionismo ed espressionismo. Sono molto legato alla pittura degli inizi del secolo scorso e mi piace dedicarmi ai paesaggi, ma anche ai ritratti. Riconosco che quest’ultimo è un campo minato, ma li ho sempre fatti, e tanti, sin da piccolo. Tutti, infatti, abbiamo delle espressioni che vengono apprezzate dagli altri ma non da noi che veniamo ritratti, perché ci ritroviamo di meno in quello che gli altri vedono di noi. Spesso, rapportandoci con noi stessi, soprattutto allo specchio, non ci ritroviamo, anche perché lo specchio ci dà un’immagine di noi che è, a parte il contrario, diversa da quella reale perché noi siamo asimmetrici. È, infatti, raro che ci ritroviamo nelle foto che ci fanno”.

In quest’epoca così frenetica le persone stanno sedute ore ed ore a farsi ritrarre?

“In realtà, in Albania facevo i ritratti in presenza, oggi tramite foto che metto sullo schermo e da qui dipingo. Avere la fotografia permette di afferrare facce, smorfie ed espressioni che dal vero, con la persona seduta davanti, è difficile cogliere. Ognuno di noi fa delle facce ed ha un proprio marchio che lo rappresenta, e la tecnologia permette di cogliere questo lato”.

Espone molti ritratti di celebrità…

“I ritratti delle celebrità li porto come vetrina, per attrarre il pubblico. Ma in casa ho tantissimi ritratti, anche di sconosciuti. Prima del Covid, mi piaceva andare in giro per strada a cogliere facce interessanti”.

Lavora su commissione?

“Sì, di solito mi richiedono o ritratti da regalare o ritratti delle persone care scomparse. Non ci sono tanti pittori che fanno ritratti. Sono difficili e non per la somiglianza. Spesso, infatti, si scambia la qualità di un ritratto per la rassomiglianza. In realtà, da Rembrandt a Van Gogh e Cézanne, noi diciamo che un ritratto è bello senza conoscere chi è stato ritratto; la somiglianza, infatti, spesso è legata ad un numero circoscritto di persone che conoscono il soggetto ritratto. La qualità di un ritratto è altro: l’espressione, le luci, i colori, la composizione”.

Ha nominato Rembrandt, Van Gogh e Cézanne: sono loro i suoi artisti di riferimento?

“Certo, infatti, nella mostra ‘Riflessi’ c’è un lavoro che curo da circa tre anni relativo a 16 ritratti di pittori, a partire proprio da Rembrandt. Quando ero più giovane mi piacevano solo i pittori moderni, poi crescendo ho capito che la storia della pittura è importante. Sto anche realizzando tre quadri di Caravaggio un po’ a modo mio, un po’ impressionistici, un po’ moderni, un po’ punk”.

Sul profilo Facebook mi è parso di cogliere un suo autoritratto…

“Sì, è un autoritratto a olio di un po’ di anni fa. Ho realizzato tanti autoritratti, che è la cosa più bella e facile: conosci meglio te stesso e puoi fare come ti pare, perché nessuno si può lamentare. Se vai a vedere Rembrandt, te lo cito perché è uno dei miei preferiti, ne avrà fatti un’ottantina di autoritratti. L’autoritratto è un classico perché puoi sperimentare. Io troppi ne ho. Certi li ho fatti da ragazzino e li conservo ancora. Ad ogni mostra ne espongo uno. Anche in ‘Riflessi’ come locandina”.

Perché il titolo della sua prossima mostra è “Riflessi”?

“Perché una sezione importante è dedicata al riflesso delle cose sull’acqua. Ci sono alcuni lavori con immagini che sono il riflesso di cose, come ad esempio del ponte di Castel Sant’Angelo: sembra un’immagine astratta; invece, è il riflesso del ponte sull’acqua. Singolare è che nell’immagine pongo degli animali, come un cane o un lupo che si tuffa, a simboleggiare il tuffo nei colori, nella vita. È questa una citazione autobiografica intesa come l’affrontare la vita, che è un’incognita ma è bella e colorata. Con questa idea, in questi quadri dipingo quello che si riflette nell’acqua e non quello che sta fuori”.

Espone per l’intera settimana di Pasqua, è una cosa molto impegnativa!

“Sono impegnativi i preparativi di una mostra, perché io sono sempre insoddisfatto di come vengono i quadri. Oltretutto io ho il vizio di fare tutto da me, anche le cornici, non delego nulla. Quando, invece, comincia la mostra mi rilasso perché amo parlare con la gente e, quindi, con chi verrà a vedere le mie opere. La mostra in sé, come il mercato di Ponte Milvio, mi rilassa. Io sono un agitato, faccio sempre tante cose, ma quando è giunto il momento di esporre mi racconto a chi è interessato ai quadri con molto piacere”.

Ponte Milvio Antiquariato cosa le regala?

“Ponte Milvio è la mia uscita di casa, la mia boccata d’ossigeno. Il pittore è un solitario, tranne quando c’è la mostra. Ho iniziato a frequentare la piazza di Ponte Milvio per capire se avessi potuto vivere della mia pittura. Il 90% delle persone che passano sembrano non interessate ai quadri, ma poi c’è quella piccola parte che si ferma a parlare e fa i complimenti ed io ricevo così un incitamento a continuare ed a cancellare i miei dubbi e ripensamenti su ciò che sto facendo. È gratificante parlare e poi avere la soddisfazione della vendita dei quadri che mi permette di continuare su questa strada. Nonostante i miei 57 anni, mi ritengo un giovane pittore con grandi margini di miglioramento. Ponte Milvio è faticoso per gli orari mattutini – alzarsi prima dell’alba! -, ma è una vetrina che mi piace. Con gli altri espositori in piazza sono un compagnone”.

Cos’è per lei l’arte?

“Io mi ritengo più un pittore che un artista. Per me la pittura è passione, grinta, ma anche rabbia, una valvola di sfogo che aiuta ad essere migliore”.

Ricorda il suo primo quadro?

“Conservo il primo quadro a colori, a olio, che risale al 1971, e rappresenta la nave Vlora. Il fatto interessante è che io sono venuto in Italia nel Novanta e l’anno dopo, nel 1991, tutti restarono colpiti dall’immagine degli albanesi sulla Vlora della città di Valona, nave simbolo dell’Albania, così ci dicevano a scuola. Il caso ha voluto anche che nel ’86-’87 io abbia fatto il militare a Valona”.

La sua prima arrampicata?

“È stata nel ’95-’96, complice una ragazza di cui mi ero innamorato che faceva arrampicata. Le prime volte abbiamo scalato in una vecchia cava a Ciampino, dove facevano i sampietrini. Poi feci un corso al Cai, il Club Alpino Italiano, e da lì iniziò questa avventura incredibile. Io sono stato sempre uno sportivo, ho fatto di tutto, ma nessuno sport mi ha preso come questo. In Albania al liceo giocavo a basket. Mia madre diceva che sono stato sempre carico di energia sin da piccolo. Quando ho scoperto di essere portato per l’arrampicata ho collegato che, in fondo, da piccolo amavo salire sugli alberi”.

C’è una tela che considera il suo capolavoro?

“La mia tela più bella è quella che farò. A volte rischio, però, di rovinare i miei lavori. Per migliorare un quadro, infatti, devi avere coraggio perché non puoi tornare indietro, come è ad esempio per la scrittura: una volta ritoccato il quadro non sarà mai più quello di prima”.

Come si pone di fronte al dipingere?

“Dipingo tantissimo tutti i giorni e sono contento che comincio ad essere apprezzato. Nella mia ottica, io non invento nulla, perché è già stato tutto vissuto da tutti i pittori. Vero è che nel momento in cui viviamo diamo la nostra versione a quello che abbiamo dentro. Io non penso di essere uno importante e non mi monto la testa nonostante i molti riconoscimenti. Ho il mio percorso e voglio svilupparlo stando in equilibrio, un equilibrio che è anche dei miei quadri che oscillano tra il figurativo e l’astratto senza prediligere o l’uno o l’altro. Nella pittura mi comporto come nella vita, non ho mai preso una posizione netta. Forse sono così perché non ho mai voluto perdere nulla, però forse agendo così ho perso tutto, chissà! Le mie uniche scelte serie sono la pittura, l’arrampicata e le amicizie. Con gli amici, in particolare, mi piace scherzare e ridere, perché il sorriso è la cosa più importante che esiste”.

Qual è la sua filosofia di vita?

“Dimostrare coi miei quadri che la natura e gli animali sono migliori di noi esseri umani. La natura regala vita ed emozioni, ma noi la stiamo distruggendo. Gli esseri umani sono raccapriccianti e la politica, tout court, mi ha disilluso da quando ero piccolo. La mia famiglia è stata massacrata, i miei genitori sono stati distrutti dentro e non è che in Occidente ho trovato di meglio, anche se pensavo che fosse migliore. Il cervello risponde a sete di supremazia e potere. Io mi sono costruito il mio mondo di quadri che condivido con i due gattini che vivono con me. Mi isolo dalla cattiveria. In tv scorrono immagini tremende, soprattutto in queste ore di guerra, ma anche se provi a vedere un film sei sommerso da immagini di gente che si spara e si ammazza. Ora in tv mi limito al calcio – ho ritratto tanti calciatori e seguo la Roma – e a Blob per quel suo occhio cinico di guardare al mondo”.

In Italia come si trova?

“L’Italia rappresentava la possibilità di una vita migliore. In Albania per quarant’anni siamo stati oppressi. Per noi l’Italia era la libertà e pur di raggiungerla io ho rischiato la vita. Non ho trovato la piena libertà, ma in ogni caso non tornerei indietro: almeno qui ho la parvenza di fare quello che voglio, in Albania invece non c’è questa possibilità. Io qua mi lamento a volte, però ci sono situazioni peggiori in Albania”.

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